Si conclude con oggi il “Cous cous Fest” di San Vito Lo Capo, la rassegna internazionale che da dieci anni ha come protagonista il cous cous, piatto diffuso presso numerosi popoli e culture del Mediterraneo le cui radici affondano nella notte dei tempi. “Tremila anni di cous cous e dieci anni di fest”. Questo lo slogan di quest’anno che allude alla storia del piatto, l’alimento etnico più conosciuto in Occidente.
Una leggenda racconta che il Re Salomone, innamoratosi perdutamente della regina di Saba, passasse le notti insonni, smaniando e deperendo a vista d’occhio. Il medico di corte, interpellato, gli preparò un sapiente impasto di semola di grano duro, insaporito da alcune essenze vegetali. Il Re riprese vigore e regnò in pace.
Per averne qualche notizia storica bisogna risalire agli antichi imazighen, cioè i Berberi abitanti delle montagne e delle valli del Maghreb da qui, accompagnando le popolazioni nelle loro migrazioni, seguendo le rotte di mercanti e di conquistatori, il kuskusu, per dirlo in arabo, è approdato in Europa. Oggi il termine sta ad indicare sia la semola di base sia il piatto completo dei condimenti e portate che lo accompagnano.
Maftoul, kseksou, cuscus, cuscussù, cascasa, sekso, kskso, kuskus, burgul, tabouleh: dall’Africa alla Sicilia, dall’Europa al Sud America, il cous cous ha viaggiato conservando la sua identità, pur amalgamandosi con la gastronomia locale. La semola di grano duro, base del piatto, è sempre uguale , ma gli ingredienti che ne costituiscono il condimento variano da regione a regione. In Tunisia, per esempio, si usa molto il pomodoro e l’harissa, piccantissima salsa di peperoncino. In Marocco si abbonda con le spezie del ras al hanut (letteralmente “il padrone della bottega“) di cui ogni venditore ha la sua ricetta segreta, frutto di alchimie misteriose. In alcune zone del nord si usa aggiungere uvetta e miele alla carne. Dappertutto si utilizza prevalentemente carne di agnello, di montone o di pollo. Il cous cous marocchino è assai ricco, quello algerino è più semplice, quasi austero. La versione siciliana, invece, prevede l’utilizzo del pesce.
Lo si può trovare fine, medio o grosso, bianco o bruno, al burro o all’olio, speziato o no, salato o dolce, alla carne, al pesce, alle verdure, alle erbe. Ma almeno una volta nella vita bisognerebbe provare la versione originaria, quella del Algeria, Marocco e Tunisia, l’area geografica dove il piatto ha le sue radici.
Furono i Romani a trasformare il Nord Africa, la Sicilia e il Medio Oriente in un enorme granaio facendo del frumento il motore della loro conquista.
In Italia il cous cous ha una lunga storia. Nella zona di Trapani si preparava già prima dell’arrivo dei pescatori tunisini. Nella zona di Livorno fu introdotto dagli ebrei in fuga dalla Spagna, alla fine del 1500. E in Sardegna fu portato nel diciottesimo secolo, dalla comunità dei pescatori liguri di Tabarka (Tunisia) che si stabilì a Carloforte.
Preparare e consumare il cous cous è una sorta di rituale che si lega alla tradizione religiosa più che a quella gastronomica. Chi lo prepara deve disporsi correttamente concentrandosi ed allontanando i pensieri negativi. Consumarlo, poi, rappresenta un momento di grande convivialità , soprattutto alla fine del digiuno giornaliero durante il Ramadàn. Una volta pronto, il cous cous si dispone in un unico grande piatto rotondo con con la semola tutta intorno, la carne e la verdura al centro. A parte, si serve una ciotola di brodo arricchito da spezie di ogni tipo, da cui ognuno può attingere a piacere. Tutti i commensali, dopo aver solennemente pronunciato il rituale Bismillah (in nome di Dio) si servono con le mani formando una pallina di semola sgranata attorno a un pezzetto di verdura o carne o pesce.
Fonte: web e sito Cous Cous Fest
Per approfondimenti: le ricette dello chef algerino Farid Zadi, docente alla California School of Culinary Arts.