L’Arte a Napoli, in strada, è difficile.
Il Comune di Napoli – tra il brand “Napoli” recentemente danneggiato dal sole e la pira del La Venere degli stracci a Piazza Plebiscito – si supera con il Pulcinella eretto da Gaetano Pesce (foto Dissapore), e scambiato per un fallo, di cui tutti ridono impunemente, in questi giorni.
Visto che mi occupo di enogastronomia mi viene in mente qui, forse un pò impropriamente, anche l’opera di Lavazza nella Sanità. Da me percepito, soprattutto, come uno schiaffo in faccia al caffè napoletano. E non per alimentare il dissidio Nord Sud ma per la lettura di una sciente strategia.
Si perchè il noto brand torinese, già autore di un video istituzionale che mi aveva lasciato attonita, fa esercizio di brand art a Napoli conquistando, con l’opera realizzata da Alessandro Ciambrone e con buona pace del condominio dirimpettaio della Basilica di Santa Maria alla Sanità, una piazza super popolare del cuore della città.
Lo fa “prendendo in prestito”, con un uso risoluto e accattivante di colori pop impossibili da non notare, di una serie di simboli napoletani (vulcani e cornetti vari) e aggiungendovi, tra gli altri elementi, la rappresentazione di cialde e confezioni.
Il caso, invero, esorbita, tecnicamente, quello di arte pubblica, in quanto il palazzo è privato. Ma la piazza lo è.
Ed è anche una piazza dove i graffiti sono stati sempre molto aderenti al vissuto del Quartiere.
Qui ci sta “Luce”, firmato da Tono Cruz, che raffigura i volti di alcuni bambini del quartiere, illuminati da un fascio di luce benefico a occhio di bue. E ancora, dell’artista argentino Francisco Bosoletti, il maxi murale “Resis – ti – amo”, ispirato alla storia di due ragazzi napoletani che invita alla resistenza e alla speranza. Senza contare, sull’ascensore del Ponte della Sanità, “Tieneme ca te tengo” di Cabrera Carandang che ritrae due giovani avvolti in un abbraccio. Senza contare Totò e Peppino poco più fuori dalla piazza.
Insomma: un bel colpo per Lavazza che – ben sorretta dai suoi uomini di marketing – (in un suo video istituzionale, per la scelta narrativa, racconta a due giovani comparse napoletane la vera storia della nascita del caffè espresso) tocca un tesoro della città dal cuore della città: il caffè.
Nell’insieme, concludendo, Napoli, sul fronte dell’arte, appare un pò disordinata nella realizzazione ma soprattuto nell’intento. E paga la confusione non solo con l’impoverimento delle casse del Comune (dicono costi 500000 euro la opera di Pesce che raccoglie critiche). Ogni occasione creativa per lei si trasforma in una sorpresa. E non sempre in sorpresa positiva.
Mi vengono, ancora una volta con un salto mentale, mentre scrivo, le decorazioni natalizie giganti di fattura cinese qualche Natale fa (ma l’elenco degli insuccessi natalizi è più lungo). E, ovviamente, le infinite recriminazioni all’indirizzo delle stazioni d’arte: molto poco funzionali ed efficienti nel servizio, anche se belle.
Ed ancora: la “spaccatura architettonica”- ricettacolo di rifiuti – della martoriata piazza Plebiscito, priva di un filo d’erba, e i poderosi tubi incrociati della stazione Metro Garibaldi opera dell’architetto Domnique Perrault che più che riempire “un immenso vuoto” (ndr: dal comunicato di Domnique Perrault Architecture) occlude la vista di ciò che resta di una piazza che vantava, fino agli anni Sessanta, una bella stazione ottocentesca.
Fuoco, rifiuti, furti, derisione. Napoli ripudia, rigetta, distrugge, ciò che crea.
Ma chi e come la crea sono il punto.
Pare facciano una brutta fine (anche mediatica) quelle realizzazioni che non sono in linea con “la pancia della città”. Mi ricordo l’inaspettato furto di alcune “capuzzelle” (teschi) della installazione dell’artista Rebecca Horn a piazza Plebiscito.
In tal senso penso che, al contrario, difficilmente uno dei graffiti di Jorit – tra personaggi storici, Maradona e Santi – sarà oggetto di atti vandalici o manifestazioni di ripudio collettivo.
Nè, mi pare, lo sia stato il bimbo di marmo incatenato a terra di Jago, l’artista italiano recentemente acclamato da Il Guardian “nuovo Michelangelo”, che nella chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi – restaurata grazie alla sinergia tra i fondi delMinistero dell’Interno, Curia napoletana e parrocchia guidata Antonio Loffredo – ha il suo studio.
Mentre, dicevo, un fuoco doloso si abbatte sulla Venere di Michelangelo Pistoletto che “fa bello ciò che è brutto”, il sole cittadino non la fa buona all’installazione dell’architetto Marco Tatafiore che ritraeva le sei lettere della parola “Napoli” con 12 pannelli in acciaio inox e vetro.
I pannelli della nuova stazione Marittima sono stati oggetti di critica perchè propinano, a croceristi e visitatori, un banale fritto misto di iconografia cittadina in salsa magica: la pizza, San Gennaro, la metro Toledo e così via.
Il tutto insistendo su uno spazio che di fatto, con ciò che emerge dei 2400 metri quadri realizzati, costituisce un grigio muro di cemento che si frappone alla vista mare e del porto.
Condivido la posizione di chi come Maria Muscarà, consigliera regionale della Campania, dice che si sta uccidendo Napoli e che “i marchi alimentari sui palazzi sono offensivi”. Citando anche Voiello con la sua Sirena (ndr: dove però ilpacco di pasta lo devi cercare).
Secondo la consigliera regionale (qui su Stylo24) spendere, a Napoli, denaro per la turistificazione dell’arte è una operazione a perdere . Aggiunge: i turisti «non consumano altro che una pizzetta e una bottiglina d’acqua, sporcano più di quanto spendono» e – circa le opere d’arte – «che d’arte non sono». Innanzitutto – spiega – perché non sono apprezzate dai cittadini, ma servono solo a compiacere i turisti.
La città di Napoli, insomma, ha una capacità incredibile di sprecare l’occasione offerta dall’arte o di farla diventare occasione di appropriazione di altri, in barba alle esigenze dei cittadini e della storia della città stessa.
Ma il più grande interrogativo resta: perchè i soldi per opere del genere ci sono ed invece, ad ogni istanza, per piantare un albero che sia degno di questo nome, no?
Perchè piazza Plebiscito sembra una pista di atterraggio inospitale mentre potrebbe essere un luogo dove i turisti, al posto di scattare un selfie rapido, siedono al fresco e respirano la bellezza del Castel Nuovo, della cupola della Galleria Umberto, della facciata del Palazzo Reale o del Municipio, o, infine, della silhouette del Vesuvio?
Il grande assente a Napoli è il verde. Un colore che manca alla tavolozza dei creativi locali.