L’arte del pizzaiuolo napoletano è entrata nella lista Unesco.
Dallo scorso 7 dicembre, con il voto unanime del Comitato di governo dell’Unesco riunito a Jeju, in Corea del Sud, ha ottenuto il riconoscimento che già era toccato alla Dieta Mediterranea. Il tutto dopo otto anni di negoziati internazionali.
La città è in festa e i pizzaioli (che dire?) hanno accolto la notizia come se la squadra del cuore avesse vinto ancora lo Scudetto.
Il goleador è stato Alfonso Pecoraro Scanio presidente della Fondazione Univerde, che con la sua costanza e organizzazione (vincente l’idea di coinvolgere Coldiretti sia come rete sul territorio che per il lavoro dell’agricoltura a sistema con il mondo di produzione della pizza), ha portato a buon fine la petizione iniziata nel 2000 quando era Ministro attraverso la piattaforma Change.org.
La pizza è nel patrimonio immateriale Unesco e come ha detto molto efficacemente l’assessore Panini, che ha seguito per il Comune di Napoli la procedura, “lo è il lavoro in generale. Ed in tal senso il riconoscimento non ha precedenti. Si premia l’attività umana, costituzionalmente tutelata dalla nostra Costituzione” .
La dichiarazione è di oggi, giornata nella quale dopo i selfie e le altre pubbliche feste, ci si ritrovati per mettere a fuoco un evento che può, se opportunamente valorizzato, avere grande influenza sul destino della città e, ancor meglio del Paese, perché non accada più che ci si senta chiedere, come ha ricordato Pecoraro Scanio: “come si dice pizza in italiano?”.
La Laconferenza stampa di stamani ha salutato le 2 milioni di firme.
Per una volta tutti unitisi è lavorato per un obiettivo comune. Significativo e decisamente auspicabile per il seguito che alla conferenza presso la Associazione Verace Pizza Napoletana presieduta dal padrone di casa presidente Antonio Pace sedesse il collega della Associazione Apn Sergio Miccù, altro tassello della felice iniziativa
Ma cosa entra nella tutela Unesco? Un saper fare e un metodo che i pizzaiuoli napoletani si tramandano da generazioni e hanno codificato condividendolo con i colleghi di tutto il Mondo che praticano questa arte. Non è la pizza in sé ad essere tutelata, si è tenuto a precisare in più di una occasione.
Flash Back
Da quella felice mattina in cui Bill Clinton varcò la soglia della Pizzeria di Matteo, in giro per il centro in occasione del G7, ai primi passi del racconto della storia e delle famiglie della pizza napoletana di mio pugno, a partire dal 2008 (si ricorda anche qui su Il Mattino), sulle pagine del sito www.lucianopignataro.it, passando per il riconoscimento della Stg al prodotto nel 2010, per arrivare al più recente esplodere della pizza mania tramite i social e gli hashtag, sono passati 20 anni.
L’impennata, però, è degli ultimi 10 anni e ancor di più degli ultimi 5 quando (trovo una evidenza chiara questa) la gran parte dei pizzaioli ha assunto un decoro nuovo con la dismissione di berretto e grembiule dello sponsor di turno e la scelta della più sobria giubba da pizza chef con il proprio nome scritto a caratteri d’oro.
Investono in comunicazione e sono più consapevoli di sé. Ma non era così nel 2008 quando io iniziai.
Centinaia di anni di sacrifici e mortificazioni – tramandati tutt’uno con l’arte dei padri (tra i primi autori delle angherie ai figli perché si mantenessero “nel seminato”) – erano nel sangue, sotto la pelle, di questi artigiani che si mostravano per lo più tutti molto schivi, modesti al limite della autoflagellazione.
Il pizzaiuolo era il lavoro che sapevano fare (l’unico che sapevano fare, cosa ben diversa) ma era anche una sorta di condanna imposta dalla propria famiglia. Molto meglio sarebbe stato poter far altro, qualcosa di “più elevato, meno umile e faticato”, se non fosse stato che per il fatto che era un lavoro sicuro.
Non mancava l’orgoglio, certo, della propria tradizione eppure – a conti fatti – era un orgoglio goduto a metà perché nessuno lo celebrava.
A ben guardare, la pizza, amata e desiderata, viveva il suo protagonismo a tavola senza dividerlo con il suo creatore. Viveva di vita propria. Come il burattino di legno sfuggito al controllo del suo Geppetto.
Le pizze ottime in città erano quotate ed accompagnate da un gran consenso di pubblico, ma erano senza firma. Chi era che le preparava? Il nome di chi era al banco non si conosceva, non aveva importanza. Né, figuriamoci, i nomi di quelli che ci erano stati prima. Oggi è esattamente l’opposto: nessuna pizza può emergere e affermarsi se non si conosce la faccia di chi la fa e ogni dettaglio (vale un po’ la logica del Grande Fratello) della sua attività.
Questo mi colpì una mattina a Corso Secondigliano e mi determinò ad occuparmene. Scriveva dei De Lucia un giornalista di politica de Il Manifesto. Solo lui. E il suo articolo riempiva la parete del locale di questa storica famiglia di pizzaioli che mi accolse tra il diffidente (quanto timore nelle prime interviste con tutti) e il sorpreso. “Possibile che nessun giornalista di settore (e per la cucina era già realtà) abbia scritto nulla su di loro e su gli altri?” Così iniziai proponendo a Luciano Pignataro una rubrica.
Dove siamo arrivati è nelle pagine delle riviste e dei maggiori quotidiani.
A volte gli amici ristoratori si lamentano “per il mostro che è stato creato” malcelando un poco di invidia dovuta al fatto (me ne scusino) che le pizzerie traboccano di persone ed occupano le pagine dei giornali e i ristoranti sono un poco al palo.
Ed io condivido il fatto che si siano prodotte delle aberrazioni: un fastidioso persistente sorriso finto da palcosenico, la mania dei selfie a sproposito, una certa attitudine a voler bruciare le tappe e scavalcare gli altri, tipici di chi arriva al successo troppo velocemente. Tutto questo impazza in questi anni in cui la pizza si affaccia in maniera dirompente sulla scena. Ma lo è anche il fatto che la pizza ha una potenza che altre pietanze non hanno: è il cibo di tutti.
E poi: come non comprendere la fame di successo di questi artigiani dimenticati così a lungo e che a volte non posseggono le coordinate da seguire in un mondo, quello dei media, che è per loro tutto nuovo?
Alla fine quel che conta è quanto l’arte di chi fa pizza napoletana riesce e riuscirà a fare per ricavarsi uno spazio crescente nella porzione vincente del Made in Italy agrolimentare, settore in costante crescita. E quanto potrà costituire la piattaforma di lancio per la agricoltura e le produzioni artigianali di qualità che tanto bisogno hanno di trovare uno sbocco certo e continuativo. Con tutte le ricadute del reddito delle famiglie in agricoltura e, più alla larga, sui nostri paesaggi e paesi.
E mentre l’arte della pizza napoletana entra in questo firmamento c’è chi già pensa alle prossime proposte. : ) Come la “tazzulella di caffè” (qui su Il Mattino).