E’ boom di film che riguardano il cibo e la cucina: dal divertente “Ratatouille” che racconta del “piccolo chef” topo, a “Caramel” che dolci sensazioni le rievoca solamente, a, ancora, per dirne solo alcuni, “Hair Spray” che inneggia al grasso con un John Travolta over size.
Solo per dire i più recenti. Ci sono, poi, “Racconti di cucina” di Bent Hamer, “Due cuori e una cucina” di Sturla Gunnarsson, “Chocolat” di Lasse Hallström. Come dimenticare, infine, “Big Hight” diretto da Campbell Scott e Stanley Tucci e gli italian western che vedevano Bud Spencer e Terence Hill avventarsi con gusto su un piatto fagioli?
Il protagonismo del cibo, usato per solleticare i sensi del pubblico ma anche per raccontare storie di tutti i giorni, dunque, non è nuovo, ma indubbiamente ricorrente negli ultimi tempi. E’ appena arrivato nelle sale italiane l’ultimo lavoro di Abdellatif Kechiche. “Cous Cous” racconta la storia di Slimane, un sessantenne magrebino che dopo aver lavorato per ben trentacinque anni al cantiere del porto di Sète, vicino Marsiglia, viene licenziato. Il protagonista sprofonda in un momento difficile e pieno di incertezze dal quale emerge con l’idea di creare un ristorante di cous cous su di una vecchia barca. Il film, che si è aggiudicato il Gran Premio della Giuria all’ultimo Festival di Venezia, ovviamente, va oltre il cibo: richiamando l’attenzione sui temi del lavoro precario, dell’immigrazione, dell’identità e della forza dei legami amicali e familiari. Emerge, poi, il profilo di una donna appartenente alla comunità araba di grande forza e volontà, il cui apporto è importante per la riuscita dell’impresa. Un’immagine molto lontana dallo stereotipo che le vede sottomesse e silenziose.
Foto: Desastredecasa.com