Mi ha fatto sorridere la notizia, commentata dall’avvocato Alessandro Senatore su Corriere del Mezzogiorno del 31 ottobre 2013 (ndr: Diametro 28 centimetri. La pizza perfetta è servita), della ricetta che scientificamente dà come risultato la pizza dal morso perfetto.
Qui la notizia su Agi. Eugenia Cheng, matematico dell’Universita’ di Sheffield, nel Regno Unito, ha pubblicato un articolo sulla “Perfetta dimensione della pizza”.
Inevitabili alcune considerazioni.
Il mondo della pizza, lo abbiamo osservato dalla posizione privilegiata del tecnico, ha compiuto in tre anni, gli ultimi, l’evoluzione che non ha compiuto in oltre 50, volendo individuare l’avvio del suo boom nell’ultimo dopoguerra. I motivi sono immaginabili.
Siamo proprio ora nella fase più saporita ed entusiasmante del suo percorso, quella nella quale si mettono in discussione saperi consolidati, si sperimentano accostamenti inediti, si rompono le catene delle consuetudini. Anche innalzando l’asticella che ha regolato finora la relativa offerta formativa e le prestazioni dei fornitori.
I pizzaioli contemporanei, che in alcuni casi si fanno largo attraverso la coltre di importanti eredità familiari, prendono il largo con i propri progetti personali, sospinti dal vento di rinnovamento che spira tra le pagine dei siti specializzati e dei social network. Mezzi che i padri, per loro fortuna, non dominano.
Sono più colti, sanno comunicare meglio e dialogare con i colleghi dell’alta cucina fugando la storica soggezione che li ha relegati ai piedi della piramide gerarchica della ristorazione. E’ il momento – non per tutti, ovviamente – in cui si rimescolano le carte, in cui si dà sfogo alla creatività talora sacrificata dalla storia.
L’idea di una pizza che ha coordinate certe, che si esprime in maniera sempre uguale a se stessa, più che essere ridicola è intempestiva. E’ come la bussola durante una tempesta creativa. Mentre tutti puntano all’occhio del ciclone: Napoli. Gli artigiani della città (e dei suoi dintorni), a fronte di un percorso di rinnovamento iniziato al Nord – sebbene con modelli di pizza, numeri e presupposti del tutto diversi – hanno tutta la possibilità di essere protagonisti. I dati parlano di un mercato del lavoro vivace e affamato.
L’idea di una pizza perfetta nelle proporzioni appare minata alla base. A quale modello si ispirano gli ideatori della magica formula?
E qui veniamo al più doloroso dilemma che anima il dibattito tra addetti al settore: quale la linea maestra per la pizza del futuro? Nonostante il dominio indiscusso, a livello di dibattito “di pancia” sulla pizza, della pizza napoletana; quello “di testa” trova autorevoli sostenitori nella pizza scuola Padoan e Callegari-Bonci. A dimostrarlo i clamorosi risultati della Guida Ristoranti 2013 del Gambero Rosso che fecero tremare i suoi vertici sotto il fuoco delle polemiche.
Pizze agli antipodi, quelle: molto piccole e dalla pasta alta, da un canto, fini di pasta e croccanti dall’alto. Senza far menzione degli ingredienti. In mezzo, o sopra, quella napoletana, che invoca la primogenitura, fino a negare che di pizza si possa parlare negli altri casi. Incoraggiante, in tal senso il recente articolo di uno dei maggiori gastronomi d’Italia, Enzo Vizzari (L’espresso, n. 43) , che, facendo riferimento a quella sfornata in una vecchissima pizzeria del Borgo Vergini, con il titolo “E’ qui la vera pizza” scrive: “Un sommesso appello a favore della pizza, quella vera, buona, sana. Vera: cioè canonica, marinara, margherita, e ragionevoli variazioni sul tema, grande “a ruota di carro”. Nulla da spartire con certe pur squisite focacce che sono semplici supporti per fantasiose leccornie di ogni tipo, dai salumi al foie gras, ma che “pizza”, vivaddio, non avrebbero il diritto di chiamarsi”.
Un’affermazione autorevole e ardita che avrà fatto storcere il naso ad altri esperti che ritengono che il cammino verso la “qualità totale” della pizza napoletana sia ancora molto lungo. Ostentando, con ciò, la consueta sufficienza e raccapriccio nei confronti della storia plurisecolare di questa città che non ha mai forza sufficiente per addurre, senza vergogna, la tradizione, e perfino l’arretratezza, a motivo di diversità ed eccellenza. Forse perché, chiusa com’è a riccio, non osserva che la ricerca dell’unico e dell’imperfetto, specie in un settore trainante come quello agroalimentare, è forse la tendenza più chiara che alimenta l’affannoso lavoro dei buyer più attenti in giro per fiere di vino e di prodotti.
Ed ecco che in un momento così concitato e privo di riferimenti certi, arriva chi, con la classica lampadina a incandescenza sulla testa, ferma il turbinio creativo e dialettico e ci offre la ricetta della pizza perfetta.
Chapeaux!