Metti un dì un Mulino nella campagna padovana, due imprenditori illuminati, ottanta valenti pizzaioli e otto giornalisti specializzati. Il risultato sono gli stati generali della pizza italiana e la stesura e la sottoscrizione di un Manifesto condiviso, costruito e discusso punto a punto sulla pizza di oggi, contemporanea. E di domani. Una pizza che ha molte anime, da Sud a Nord, dello stivale e che è arrivata oggi, di fronte alle sfide che consumatori sempre più avveduti gli impone a interrogarsi sul ruolo del pizzaiolo e sul prodotto che è e che sarà. Con tutte le diversità che questa pietanza sa esprimere emerge dai lavori del PizzaUp 2012 di Vighizzolo D’Este, un quadro eccitante i cui aspetti più rivoluzionari si colgono solo a starci dentro. A partire dalle riunioni avviate alcuni anni fa da Chiara Quaglia e Piero Gabrieli attraverso l’attività di Università della pizza per condividere riflessioni su ingredienti e prodotti e loro salubrità e sostenibilità, si è arrivati un format sofisticato di formazione – confronto interdisciplinare che riempe un vuoto ancora incolmabile nella formazione di livello alto del pizzaiolo.
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Pizzaiolo che, sebbene ingeneroso accostarlo a una categoria che, in fondo, lo ha sempre guardato con disprezzo, è sempre più chef. Così come la pizza è sempre più gourmet. In mancanza di un termine più felice, o di pari efficacia, quest’ultimo rende immediatamente l’idea di un prodotto che punta all’eccellenza e che sa rispondere a un bisogno non più solo latente di maggiore gradevolezza, leggerezza e innovatività della pizza. Senza rinnegare la tradizione, ma anzi partendo da essa, i pizzaioli di Italia, si propongono di curare con più attenzione ogni aspetto del proprio lavoro: dalle materie prime all’impasto, dal decoro del locale e degli operatori alla digeribilità del prodotto finale.
Unico additivo alla ricetta del nuovo pizzaiolo contemporaneo, un elevato contenuto di italianità. L’orgoglio, insomma, di utilizzare le produzioni agroalimentari del Paese incominciando a conoscerle meglio e a saperle elaborare. Prezioso in tal senso il contributo del comitato tecnico di pizza: Corrado Assenza, MarcoValletta, Simone Padoan, Federica Racinelli. I pizzaioli presenti, 80 (un 30% più della ultima edizione), sono accompagnati con passione e professionalità lungo un cammino il cui presupposto sono solo la buona volontà, la voglia di perfezionarsi e la fede del confronto come strumento di crescita. Di tutto questo, in un clima di serena voglia di confrontarsi e di sciogliere alcuni nodi delicati, si è parlato a Vighizzolo d’Este. E’ nato così un primo ambizioso Manifesto della Pizza italiana contemporanea sottoscritto da me, da questo blog e da i maggiori protagonisti della scena mediatica italiana. Non è mancato il lavoro sugli impasti e sugli ingredienti, fatto in squadre, ciascuna abbinata a un giornalista, il cui risultato è stato la creazione e l’assaggio delle pizze di Francesca Romana Barberini, Eleonora Cozzella, Renato Malaman, Paolo Marchi, Paolo Massobrio, Gianluca Mazzella, Davide Paolini, Monica Piscitelli. Pizza stesa croccante, alla tramontina, al metro romana, napoletana, a metro alla napoletana e così via. Un panorama goloso e ben congegnato che fa onore alla creatività e abilità che la pizza italiana sa e saprà esprimere anche in futuro.
Alcune ulteriori riflessioni. Leggo l’articolo del collega Paolo Marchi e avverto la necessità di riprendere alcune considerazioni emerse al PizzaUp 2012 appena concluso. Peccato manchino i napoletani all’Università della Pizza del Molino Quaglia. Con l’eccezione di Gianfranco Iervolino, pizzaiolo a Boscotrecase (provincia di Napoli), non c’erano in questa edizione di PizzaUp pizzaioli di Napoli. Non che siano sempre mancati nelle edizioni precedenti. Invero. Annusando un po’ l’aria vien da dire che essere oggi un pizzaiolo napoletano, città che ha dato i natali alla pizza a livello mondiale, provenire dalla città che vanta la più solida tradizione, gli esercizi e le ricette più antichi, nonché il maggior numero di pizzerie, non è facile. Invece che rappresentare un incredibile vantaggio, nelle sedi dove si svolge il dibattito colto sulla pizza, Napoli è tacciata di arretratezza. In parte, ma solo in parte, con ragione. Sebbene resti un mistero il perché storicamente ci si arroghi il diritto di valutare quanto accade a Napoli. Dal suo canto, Napoli, i suoi rappresentanti, non sanno affrontare con razionalità, e anche professionalità, questa realtà fastidiosa nei cui confronti andrebbe argomentato con calma e con la forza dei contenuti. Napoli non sa comunicare. Questo ho provato a spiegare nel mio intervento durante l’incontro di discussione dei punti del Manifesto. Il discorso è complesso e molto delicato. Se non terreno minato in quanto mi raccapriccia la sola idea che possa diventare sede di becere congetture su inimicizie da stadio. Lungi da me assumere una posizione di strenua difesa della pizza napoletana che può e deve andare incontro, come tutte, a una fase di studio e miglioramento. Prima di ogni cosa invito Napoli, i suoi pizzaioli, a pensare liberamente al proprio interesse: autodeterminare che parte vogliono avere nell’importantissimo dibattito sul futuro della pizza italiana che è in corso, ovunque esso si consumi. Li invito ad affrontare a testa alta le occasioni che sono date per farlo. Tuttavia con la stessa eleganza e sportività con la quale si pretende che i napoletani portino in giro il proprio bagaglio storico e tecnico, senza addurlo come scusante o motivo di staticità, andrebbe chiesto all’Italia della pizza e dei media di guardare alla pizza napoletana con sommo rispetto. Lo stesso rispetto con il quale si va da un pastore a chiedergli del suo formaggio o a un contadino del suo raccolto in qualche luogo d’Italia, consci che entrambi sono parte della identità di quella terra. E’ un fatto che non si riesca a parlare di pizza senza fare i conti con la pizza napoletana. Viene tirata in ballo ma ugualmente se ne sa poco. O niente. Non si capisce se è obbligatorio ed esclusivo l’uso del lievito di birra, se e come si usano i frigoriferi, se la farina è di tipo 0 o 00. Napoli ricorre nei discorsi inevitabilmente, anche quando essa decide di non volerci esserci. O, di fatto, non c’è. Il mio discorso a Vighizzolo d’Este, formidabile, ammirevole, appassionato e utile – per ora, unico – laboratorio della intellighenzia della pizza italiana, sotto l’attenzione dei più influenti media del food italiano, verteva su questi concetti: la necessità di essere uniti e di rispettarsi reciprocamente. L’universo della pizza a Napoli, ho detto – e non sono stata contraddetta – è molto ampio e diversificato. Volendolo avvicinare alla articolazione del mondo della ristorazione, c’è dalla trattoria al ristorante di buona cucina, fino al ristorante gourmet. Nella sola città di Napoli le pizzerie (i dati sono nebulosi invero) sono circa 400, un numero che assomma i locali di molte regioni dove la pizza si fa. E’ un mondo fatto, per la gran parte, di individui che non hanno scelto storicamente di fare il pizzaiolo perché credeva potesse essere un’alternativa al fare il cuoco, ma solo perché aveva una tradizione da portare avanti o perché si trovava un locale in eredità. Ma anche perché non poteva immaginare di fare altro nella vita. Perché ama con semplicità quello che fa e lo fa secondo modalità tramandategli con altrettanta semplicità. E’ questo zoccolo duro di individui che fa di Napoli un incredibile laboratorio di “umanodiversità” capace di rispondere alle esigenze per le quali la pizza è nata: quella di una pietanza appagante, completa e veloce. Un autentico scaccia fame. Credo sia giusto conservare questa diversità non fosse altro perché il popolo napoletano, diciamolo, è soddisfatto della sua pizza. Altra cosa, innegabile, invece, è che emerga con prepotenza, a Napoli, come altrove, un pubblico più esigente al quale si deve andare incontro. Cosa che già si fa. Tuttavia non si otterrà mai, che tutti i pizzaioli di Napoli, diventino pizzaioli in cammino verso una qualche eccellenza per gourmet. Ma è possibile, e magari desiderabile, che ci sia a Napoli, come in altre città, una adeguata presenza di pizzaioli in grado di condurre la città al centro del dibattito sulla pizza. Perché la sua assenza, il fatto che Napoli pensi non sia cosa buona e giusta approfittare di seminari gratuiti di alto livello come quelli di Vighizzolo d’Este, è quantomeno sciocca. Sogniamo che un’ Università della pizza di alto livello nasca anche a Napoli. In tal senso gli imprenditori napoletani, chi distribuisce le carte del mazzo, chi orienta i pizzaioli, hanno in qualche modo colpa di non essere stati tempestivi. Il perché un’iniziativa del genere non sia stata presa, da chi in questa terra ci è nata come me, in parte non sorprende, viste le condizioni del nostro Sud. Nondimeno appare un gran peccato. In assenza di chi investa su Napoli facendone la protagonista assoluta di un tema sul quale avrebbe in maniera indiscussa un vantaggio di alcuni secoli, occorre fare appello alla capacità individuale dei suoi artigiani di autodeterminare il proprio futuro. Dove si distribuiscono le carte della pizza italiana di domani, Napoli non può mancare. Oppure Napoli si faccia mazziere.