Fa una certa impressione che Gambero Rosso, nella sua Guida, non segnali neanche una pizzeria di Napoli. Numeri ufficiali non ne esistono, ma, se ben ricordo, l’Associazione Verace Pizza Napoletana sostiene siano 350 o più, solo nella città di Napoli. A me sembrano pure poche. Dato per buono il dato, come è possibile che dovendo dare cinque nomi, non ne salti fuori nessuno del capoluogo partenopeo?
In una dimensione più allargata si potrebbe dire che, però, c’è la Pizzeria Pepe e che ne conosciamo il valore. Ma Caiazzo è sempre Caserta, la provincia più a nord della Campania, mentre Napoli, dove la pizza affonda le sue radici, un bel pezzo più a Sud.
La notizia lanciata commentata dal blog di Luciano Pignataro ha scatenato un ping pong di commenti su fb, tra cui il mio. Che scrivo:
“Io non dovrei parlare perchè la guida l’ho scritta. Ma questo è anche un puro non senso numerico: su tutte le centinaia che ci sono, forse, una almeno all’altezza delle altre avrebbe potuto esserci. Se dovessi interpratarla come segnale invece direi che si sta imponendo, un’idea di pizza che si allontana dalla tradizione che è … indiscutibilmente napoletana. O quantomeno si fa passare Napoli come la depositaria della versione folcloristica della pizza, mentre quelle “studiate” sarebbero altrove. Invece al Napoli si sperimenta e si fanno eccellenti cose. Di certo lo smarrimento insorge. Insomma: una guida che segnali i migliori tortellini, con tutto il rispetto per i tortellini italiani, non può snobbare Bologna“.
La notizia non è invero che lo spunto per una riflessione che ho fatto fra me e me in altre occasioni.
Non è la prima volta che ho la sensazione che Napoli si stia facendo rubare la polpetta dal piatto. Quella della pizza gourmet, su cui è possibile, a conti fatti, che essa perda posizioni per il rifiuto netto (di principio) di associare un tal termine alla pizza -è un terreno minato perchè estremamente seduttivo per il grande pubblico e per i media.
Mi pare che, qui, Napoli tiri fuori la sua anima anarchica e testarda, poco furba per davvero ma anche ammirevole nella sua coerenza. Visto che di quel tipo di pizza ne esprime già eccellenti esempi pur non chiamandola tale.
E allora si finisce con il confondere integralismo, forse a volte mal espresso, è vero, con qualcos’altro.
Vi sembra possibile che con un esercito di mediocri, buone, ottime ed eccellenti pizzerie, numeroso come quello napoletano, debba passare che in città i pizzaioli sono retrogradi, ancorati alla tradizione come a un salvagente troppo piccolo per affrontare il mare magnum della concorrenza e sia squalificato come miope?
Non è giustificazionismo quello che mi fa affermare che i pizzaioli sono stati sempre ai margini della società e che non hanno mai avuto nè tempo nè mezzi adeguati per un confronto colto con altre categorie o con colleghi di ambienti affini. Questo storicamente. Mentre a Napoli fare il pizzaiolo è stato sempre una condanna, altrove è diventata una scelta. Una scelta, quella di dedicarsi all’artigianato alimentare, sostenuta da un pizzico in più di cultura e molta passione che, sempre di più, oggi, premia più di una laurea in economia.
I pizzaioli, a Napoli, fino a tempi recentissimi, hanno continuato il lavoro dei padri senza farsi agitare da troppi grilli per la testa. La pizza gli serviva per vivere e far vivere (non è una balla che la pizza sfamava le masse di poveracci di una delle più popolose città d’Europa) e questo spiega anche perchè, oltre che il pizzaiolo, non siano cresciuti neanche i prezzi della pizza. Mentre in altre città essa è venduta a peso d’oro.
Ma a Napoli, e Napoli stessa, non tutto è folclore.
C’è anche il fior fiore dei professionisti che, sebbene in alcuni casi continuino ancora, nel comunicare, a toccare le corde del cuore più che quelle delle formule e dei numeri, hanno una lucida visione del lavoro e sanno farlo a puntino.
Le pizzerie, oggi giorno, della Campania (mi riferisco alla regione parlando di pizza napoletana), possono dividersi in varie categorie.
Pizzerie di artigiani puri e incapaci di mediazioni. In tutto: dalla scelta degli ingredienti ai gesti quotidiani che si ripetono sempre uguali senza sapere il perchè. Questi sono i vecchi in via di estizione, ahi noi. Nel vino sarebbero le cantine che fanno ancora il vino che puzza un pò, ma che amiamo proprio così, in un mondo di vini perfetti.
Pizzerie senza anima, di quelli che si sono messi a fare la pizza perchè è una pietanza che non tramonta mai, della quale, in qualunque tempo o era, non si può fare a meno. Anche perchè fa felici tutti a prezzi ridicoli. Pizzaioli o imprenditori che vogliono “azzeccare” i soldi, insomma.
In questa categoria molti esercizi di ristorazione ricovertiti, catene e catenine e i figli dei corsi professionali accelerati per pizzaiolo, riconosciuti o misconosciuti.
Pizzerie in evoluzione che ereditano una buona tradizione familiare e sono al bivio tra continuare a mungere la vacca prodiga di latte o dare un proprio impulso personale e innovatore. Un giorno di e uno pure si interrogano sul far un gran salto e accasciarsi nella poltrona di famiglia. Si tratta di pizzerie in cui spesso proprietà e esercizio del mestiere di pizzaiolo sono scissi. Quelli nei quali i pizzaioli di ieri sono ormai imprenditori di oggi ma che mano farsi fotografare con le mani in pasta. Sono “più studiati”, si, ma definitivamente non attratti dal sacrificato lavoro dei nonni o dei padri. Alcune di queste pizzerie vivono del nome che il locale si è guadagnato nel tempo. Sono anche quelle più in pericolo perchè su di loro si appuntano aspettative da soddisfare. E se la “pucundria” è un potente oppio nel valutare la pizza per chi in quel locale è cresciuto, non altrettanto sarà quando i ricordi si saranno spenti con coloro che li hanno nutriti. Le nuove generazioni semplicemente saranno spietate con gli esercizi non al passo.
Infine: le Pizzerie di domani. Quelle da tenere in cosiderazione se si è un consumatore avveduto. Tra queste, quelle che meritano un posto in Guida. Esse per gradi, minore o maggiore (qui, poi, l’eccellenza), esprimono passione, consapevolezza e professionalità. I pizzaioli che le animano sono del tipo: se devo fare il mio lavoro voglio farlo bene. Anzi: come posso farlo meglio? Sono curiosi e ambiziosi, hanno studiato e appreso dai padri. Anche dagli errori.
Tocca a loro decidere le sorti della tradizione familiare e vogliono far vedere al mondo di cosa son capaci. Ma hanno anche fiutato l’aria e compreso che i tempi son cambiati e che si fa presto, oggi, a dimenticare la storia a vantaggio di una bella prestazione supportata dai media. In questa fetta dell’universo pizza – forse è il 20 % – 30% del tutto (ma fatevi un pò i conti) – è riposto il futuro della pizza napoletana della Campania.
Molti sono in cerca di una strada per imporsi e molti l’hanno già trovata. Alcuni sono semplicemente un esempio da seguire senza badare troppo alla concorrenza intercomunale o intermunicipale, pensando a quella grande e vera di là fuori. Sono quelli che nella mia Guida ho chiamato Pizzaioli comunicatori, ossia quelli che hanno il dono di sbalordire la platea perchè sconfiggono il luogo comune che i pizzaioli napoletani siano beceri.
Direi che è un universo articolato, dunque, quello della pizza in Campania. Da non liquidare con un colpo di mouse.
Tra i due estremi di queste semplici categorie che ho configurato, le migliori espressioni della pizza al Mondo. Quella zozzona dei pizzaioli che sembrano prestati alla scena di un presepe e quella che punta al futuro. Confesso la mia pecca: anche una pizza con ingredienti semplici, se non è da premiare in Guida per la sua eccellenza, merita un posto di riguardo come ogni imperfetta espressione di artigianato. Come le mele troppo piccole per finire nei supermercati.
Ma se può certo, di questi tempi, dare fastidio l’idea che un artigiano usi, in coscienza, gli ingredienti o i materiali che ha sempre usato semplicemente acquistandoli dal fornitore di sempre (senza chiedersi troppo se la cosa era al passo con i tempi o veniva incontro alla esigenza dei nuovi palati) si può anche ben vedere che accanto ad lui ci sono anche pizzaioli che sanno bene esattamente cosa e come scegliere. E che hanno dalla loro un patrimonio incredibile di materie prime nate con la Pizza e per la Pizza.
E pure si vuol ammettere che alcuni di essi scelgano, volontariamente, lo stesso male badando solo al profitto, bisogna anche riconoscere che molti scelgono bene, altri benissimo, e altri sfiorano l’eccellenza.
In una dimensione più allargata si potrebbe dire che, però, c’è la Pizzeria Pepe e che ne conosciamo il valore. Ma Caiazzo è sempre Caserta, la provincia più a nord della Campania, mentre Napoli, dove la pizza affonda le sue radici, un bel pezzo più a Sud.
La notizia lanciata commentata dal blog di Luciano Pignataro ha scatenato un ping pong di commenti su fb, tra cui il mio. Che scrivo:
“Io non dovrei parlare perchè la guida l’ho scritta. Ma questo è anche un puro non senso numerico: su tutte le centinaia che ci sono, forse, una almeno all’altezza delle altre avrebbe potuto esserci. Se dovessi interpratarla come segnale invece direi che si sta imponendo, un’idea di pizza che si allontana dalla tradizione che è … indiscutibilmente napoletana. O quantomeno si fa passare Napoli come la depositaria della versione folcloristica della pizza, mentre quelle “studiate” sarebbero altrove. Invece al Napoli si sperimenta e si fanno eccellenti cose. Di certo lo smarrimento insorge. Insomma: una guida che segnali i migliori tortellini, con tutto il rispetto per i tortellini italiani, non può snobbare Bologna“.
La notizia non è invero che lo spunto per una riflessione che ho fatto fra me e me in altre occasioni.
Non è la prima volta che ho la sensazione che Napoli si stia facendo rubare la polpetta dal piatto. Quella della pizza gourmet, su cui è possibile, a conti fatti, che essa perda posizioni per il rifiuto netto (di principio) di associare un tal termine alla pizza -è un terreno minato perchè estremamente seduttivo per il grande pubblico e per i media.
Mi pare che, qui, Napoli tiri fuori la sua anima anarchica e testarda, poco furba per davvero ma anche ammirevole nella sua coerenza. Visto che di quel tipo di pizza ne esprime già eccellenti esempi pur non chiamandola tale.
E allora si finisce con il confondere integralismo, forse a volte mal espresso, è vero, con qualcos’altro.
Vi sembra possibile che con un esercito di mediocri, buone, ottime ed eccellenti pizzerie, numeroso come quello napoletano, debba passare che in città i pizzaioli sono retrogradi, ancorati alla tradizione come a un salvagente troppo piccolo per affrontare il mare magnum della concorrenza e sia squalificato come miope?
Non è giustificazionismo quello che mi fa affermare che i pizzaioli sono stati sempre ai margini della società e che non hanno mai avuto nè tempo nè mezzi adeguati per un confronto colto con altre categorie o con colleghi di ambienti affini. Questo storicamente. Mentre a Napoli fare il pizzaiolo è stato sempre una condanna, altrove è diventata una scelta. Una scelta, quella di dedicarsi all’artigianato alimentare, sostenuta da un pizzico in più di cultura e molta passione che, sempre di più, oggi, premia più di una laurea in economia.
I pizzaioli, a Napoli, fino a tempi recentissimi, hanno continuato il lavoro dei padri senza farsi agitare da troppi grilli per la testa. La pizza gli serviva per vivere e far vivere (non è una balla che la pizza sfamava le masse di poveracci di una delle più popolose città d’Europa) e questo spiega anche perchè, oltre che il pizzaiolo, non siano cresciuti neanche i prezzi della pizza. Mentre in altre città essa è venduta a peso d’oro.
Ma a Napoli, e Napoli stessa, non tutto è folclore.
C’è anche il fior fiore dei professionisti che, sebbene in alcuni casi continuino ancora, nel comunicare, a toccare le corde del cuore più che quelle delle formule e dei numeri, hanno una lucida visione del lavoro e sanno farlo a puntino.
Le pizzerie, oggi giorno, della Campania (mi riferisco alla regione parlando di pizza napoletana), possono dividersi in varie categorie.
Pizzerie di artigiani puri e incapaci di mediazioni. In tutto: dalla scelta degli ingredienti ai gesti quotidiani che si ripetono sempre uguali senza sapere il perchè. Questi sono i vecchi in via di estizione, ahi noi. Nel vino sarebbero le cantine che fanno ancora il vino che puzza un pò, ma che amiamo proprio così, in un mondo di vini perfetti.
Pizzerie senza anima, di quelli che si sono messi a fare la pizza perchè è una pietanza che non tramonta mai, della quale, in qualunque tempo o era, non si può fare a meno. Anche perchè fa felici tutti a prezzi ridicoli. Pizzaioli o imprenditori che vogliono “azzeccare” i soldi, insomma.
In questa categoria molti esercizi di ristorazione ricovertiti, catene e catenine e i figli dei corsi professionali accelerati per pizzaiolo, riconosciuti o misconosciuti.
Pizzerie in evoluzione che ereditano una buona tradizione familiare e sono al bivio tra continuare a mungere la vacca prodiga di latte o dare un proprio impulso personale e innovatore. Un giorno di e uno pure si interrogano sul far un gran salto e accasciarsi nella poltrona di famiglia. Si tratta di pizzerie in cui spesso proprietà e esercizio del mestiere di pizzaiolo sono scissi. Quelli nei quali i pizzaioli di ieri sono ormai imprenditori di oggi ma che mano farsi fotografare con le mani in pasta. Sono “più studiati”, si, ma definitivamente non attratti dal sacrificato lavoro dei nonni o dei padri. Alcune di queste pizzerie vivono del nome che il locale si è guadagnato nel tempo. Sono anche quelle più in pericolo perchè su di loro si appuntano aspettative da soddisfare. E se la “pucundria” è un potente oppio nel valutare la pizza per chi in quel locale è cresciuto, non altrettanto sarà quando i ricordi si saranno spenti con coloro che li hanno nutriti. Le nuove generazioni semplicemente saranno spietate con gli esercizi non al passo.
Infine: le Pizzerie di domani. Quelle da tenere in cosiderazione se si è un consumatore avveduto. Tra queste, quelle che meritano un posto in Guida. Esse per gradi, minore o maggiore (qui, poi, l’eccellenza), esprimono passione, consapevolezza e professionalità. I pizzaioli che le animano sono del tipo: se devo fare il mio lavoro voglio farlo bene. Anzi: come posso farlo meglio? Sono curiosi e ambiziosi, hanno studiato e appreso dai padri. Anche dagli errori.
Tocca a loro decidere le sorti della tradizione familiare e vogliono far vedere al mondo di cosa son capaci. Ma hanno anche fiutato l’aria e compreso che i tempi son cambiati e che si fa presto, oggi, a dimenticare la storia a vantaggio di una bella prestazione supportata dai media. In questa fetta dell’universo pizza – forse è il 20 % – 30% del tutto (ma fatevi un pò i conti) – è riposto il futuro della pizza napoletana della Campania.
Molti sono in cerca di una strada per imporsi e molti l’hanno già trovata. Alcuni sono semplicemente un esempio da seguire senza badare troppo alla concorrenza intercomunale o intermunicipale, pensando a quella grande e vera di là fuori. Sono quelli che nella mia Guida ho chiamato Pizzaioli comunicatori, ossia quelli che hanno il dono di sbalordire la platea perchè sconfiggono il luogo comune che i pizzaioli napoletani siano beceri.
Direi che è un universo articolato, dunque, quello della pizza in Campania. Da non liquidare con un colpo di mouse.
Tra i due estremi di queste semplici categorie che ho configurato, le migliori espressioni della pizza al Mondo. Quella zozzona dei pizzaioli che sembrano prestati alla scena di un presepe e quella che punta al futuro. Confesso la mia pecca: anche una pizza con ingredienti semplici, se non è da premiare in Guida per la sua eccellenza, merita un posto di riguardo come ogni imperfetta espressione di artigianato. Come le mele troppo piccole per finire nei supermercati.
Ma se può certo, di questi tempi, dare fastidio l’idea che un artigiano usi, in coscienza, gli ingredienti o i materiali che ha sempre usato semplicemente acquistandoli dal fornitore di sempre (senza chiedersi troppo se la cosa era al passo con i tempi o veniva incontro alla esigenza dei nuovi palati) si può anche ben vedere che accanto ad lui ci sono anche pizzaioli che sanno bene esattamente cosa e come scegliere. E che hanno dalla loro un patrimonio incredibile di materie prime nate con la Pizza e per la Pizza.
E pure si vuol ammettere che alcuni di essi scelgano, volontariamente, lo stesso male badando solo al profitto, bisogna anche riconoscere che molti scelgono bene, altri benissimo, e altri sfiorano l’eccellenza.