la plaka di Atene |
Nel mio post precedente ho ufficializzato la cosa: dal 14 luglio sono anche una ristoratrice part time. L’esperienza mia e di mio marito per l’avvio di questo ristorantino, pensavo, può essere utile a chi magari un giorno voglia fare altrettanto.
Cominciamo dall’inizio. Innanzitutto: in tanti mi hanno suggerito di non passare dall’altra parte della barricata. “E’ un lavoro sacrificato, quello dello chef”. Lo è quello degli imprenditori … e dei ristoratori, in particolare. Non dico di no, ma posso assicurare che anche quello della giornalista e della comunicatrice lo è altrettanto. Per cui, ho dedotto, come sempre, nessuno è felice di quel che ha.
Dunque, regola prima per avviare un’attività: non ascoltare nessuno. Ciascuno avrà da dire la sua. Ma ciò che è peggio, qui la beffa, è che – ci potrete giurare – a una vostra domanda precisa su un argomento, la risposta mancherà matematicamente. Io, per uno strano destino, quando ho avuto assoluto bisogno di una dritta o di un consiglio forte, non ho mai trovato la persona disposta a fornirmeli o quella che ci capisse qualcosa. E non che io non abbia bussato alle porte nominalmente giuste. Tuttavia, tra uno che ammette candidamente di non saper nulla ed uno che finge di sapere e che finisce per forviarti, però, è meglio preferiate sempre il primo, in ogni caso. E questo è il secondo consiglio.
Il caso più eclatante è quello della ricerca delle aziende italiane che esportano all’estero. Ma che dico italiane, meridionali!
Il fatto è che, siccome sono cocciuta, e siccome amo la mia terra, volevo assolutamente avere alcuni prodotti campani, o meridionali, sulla mia tavola. Non chiamatemi provinciale. I vini toscani, piemontesi e veneti viaggiano già bene sulle proprie gambe da soli che non hanno necessità di essere accompagnati ad esplorare nuovi orizzonti come quelli di cui parlo. Ma non è solo il vino la questione. Arrivata a Patmos – dove manca un ingrosso e dove solo un paio di anni fa la catena AB, con la resistenza di tutti i locali, ha aperto un esercizio – la prima cosa che ho fatto è stata guardarmi intorno. Ragioniamo sul pomodoro, per dirne uno. Come si fa una cucina mediterranea senza un pomodoro adeguato? Mi son resa conto in breve che c’è pomodoro ovunque, nei nostri piatti (quelli napoletani per esempio) eppure il pomodoro è il grande assente. Mi son messa sulle sue tracce come prima cosa. E’ stata la mia ossessione per un mesetto buono.
Sul fresco, anche se mancano varietà che danno sostanza alla cucina che voglio proporre (una cosa tipo un pomodororino del Piennolo per i piatti di pesce, ad esempio), circa la locale offerta, non discuto. Tagliato malamente nella insalata greca, non si può dire che un rosso “pomodorone”,scarseggi.
Ma riguardo alle conserve, per me che, come napoletana, sono circondata, dalla culla, dai migliori pomodori del Creato (penso al San Marzano Dop), aver a che fare con i chopped tomatoes è stato un trauma. Costi a parte (esorbitanti, per un prodotto di infima qualità) questi prodotti sono acidi, ribelli in pentola e poco invitanti alla vista. La passata, poi, venduta nel tetra pack, non ha consistenza e richiede l’aggiunta di zucchero, vista la sua aggressività. Orrore!
E dire che non è che non mi aspettassi di affrontare qualche difficoltà.
Parliamo dei pelati. Mi sono messa all’opera per trovarne, dopo aver analizzato anche la proposta della catena Metro/Makro ad Atene. La linea Horeca, lì, ha un bel aspetto, ma i costi di spedizione e i tempi di consegna all’interno della Grecia, essendo poi Patmos piuttosto remota, rendono molto più valida l’opzione a chilometri zero. E io ci credo pure.
Son tornata allora a bomba su spacci e supermercati dell’isola. Contemporaneamente, non paga, ho cominciato a scrivere a tutti. Tra cui alla Camera di Commercio Italo Ellenica. Questa, per tutta risposta, mi ha mandato una mail copia e incolla di un loro format di lettera che parla di iscrizione alla Camera senza dirmi se dispone delle info di cui ho bisogno. Lascio stare.
Sul fronte della Camera di Commercio di Napoli (interpellata informalmente tramite una conoscenza, giusto per orientarmi) stessa solfa.
Ugualmente vada per un Consorzio o due.
Sembra che nessuno abbia la visione completa di quali siano le aziende campane che esportano. Su quali mercati e cosa. O perlomeno una persona di media intelligenza e abilità quale mi ritengo non è in grado di raccogliere questo genere di informazioni in un tempo ragionevole. Anche questa non è ovviamente una sorpresa, ma fa male lo stesso. E molto.
Il fatto è che sembra, mi han riferito, che siano proprio le aziende a non comunicare questi dati. E’ questo (ma guarda!) certamente il modo migliore per non far sapere a nessuno che si ha un prodotto e che esso è disponibile fuori dai confini nazionali… Però poi ci si lamenta tutti perchè il mercato italiano è saturo, o che lo sono una serie di altri, e che si batte la fiacca.
In mancanza di un orientamento istituzionale, l’unica, per me, è stata contattare le aziende una ad una. Spesso dovendo cercare per loro le soluzioni di consegna all’estero. E’ questo un sistema che consente di avere ciò che si vuole, si, ma a costi troppo alti e con grande dispendio di tempo.
E’ una opzione da scartare. Direi che questo è il terzo consiglio, se non volete impazzire.
Dopo una valanga di email, alcune confuse e reiterate, ho rinunciato allora alla Pasta campana. Anche perchè il livello degli ordini minimo è esorbitante (con tutti i problemi di immobilizzo di denaro e di stoccaggio). Quel che è davvero duro è accettare che non si possa fare un ordine misto. O ti prendi un pallet di rigatoni o nulla. Ma rischi di mangiare rigatoni per tutta la vita. Non va.
Vi sfido a trovare il modo, in 15 click, di contattare, che so, Voiello, gruppo Barilla. Ho scritto all’indirizzo del blog almeno un paio di volte, ma la mail tornava sempre indietro. Mea culpa: devo essere una blogger imbranata con internet.
Sulla qualità dei siti web, visto che faccio anche questo mestiere, mi dilungherò in un’altra occasione. Potete star certi che nel web, sul sito di una azienda, perderete molto tempo, che dovrete scrivere una mail addizionale. Ma la risposta tarderà ad arrivare. Quando arriverà, poi, non vi ricorderete neanche cosa avevate chiesto.
Ho chiamato quattro volte un pastificio gragnanese che davvero non ricordo più quale fosse, ma uno di quelli che era nella mia top list, e per due volte mi è stato risposto che la persona responsabile non era lì. L’export manager è davvero una professione che va un pochino incrementata presso le nostre aziende. E se potesse magari parlare l’inglese … non disturberebbe affatto!
Mi son consolata solo considerando che in Grecia mi è parso solo il 30% delle persone addette al contatto con il pubblico parla la lingua comunitaria. Non vi dico che mal di pancia è fare un ordine al telefono o via email. Io che vivo di tasti, clic e testi virtuali ho sofferto come un cane. Non mi pare vero, ad esempio, che dopo due mesi dalla richiesta la Ote, la compagnia telefonica greca, mi abbia concesso il lusso di recapitarmi il router che stamani mi consente di scrivere questo post.
Ma questo è un altro argomento.
Dopo i consigli una preghiera.
Vi prego aziende del Sud: mettete sul vostro sito un banale elenco dei Paesi in cui esportate, con tanto di nomi e contatti dei vostri distributori. Fatelo per amore dei poveri ristoratori che vi cercano. Potreste guadagnare dei soldi.