Cantine Aperte è la manifestazione del Movimento Turismo del Vino (vai al post precedente) che più di ogni altra punta a coniugare la passione per il vino, un certo interesse per le attività all’aria aperta e la riscoperta delle attrattive monumentali artistiche del territorio rispetto al quale le cantine giocano , o potrebbero giocare, il ruolo di poli attrattivi e di sviluppo. E’ un appuntamento del quale approfittano in tanti per visitare quelle aziende vitivinicole che in certi momenti sono percepite come distanti, come laboratori blindati i cui unici elementi di contatto con l’esterno sono le bottiglie che ci si mette a tavola, con tutto il loro corredo di profumi e racconti zeppi di gesta epiche.
Monicotterate – Cantine aperte: far la turista sulla traccia dei ricordi e la tagliata di tonno di Daddio
Una volta l’anno, giovani, vecchi e famiglie, superano una sorta di timore reverenziale nei confronti dei produttori e si impossessano dei loro spazi: giardini, salette degustazione e vigne, con effetti anche traumatici su alcuni di loro.
Insomma: Cantine Aperte è il grande evento democratico del vino. Una delle poche occasioni nelle quali ci sono risposte alle domande più basilari o a quelle che nessuno osa far più; o in cui è consentito definire il vino, semplicemente, “buono” o “cattivo”, “bianco” o “rosso”. Di fatto, una bella sonora sculacciata a chi ne fa un elemento distintivo dalla massa e il marcatore di una cultura superiore. Una kermesse equa e spensierata nello svolgimento che taluni snobbano e altri criticano. Ma molti altri, i più, semplicemente si godono.
Per quello che mi riguarda mi ha sempre ispirato grande simpatia. Nonostante ciò, per una serie di inspiegabili combinazioni, quest’anno, in deroga all’andamento degli scorsi anno, l’ho disertata. Pur avendone rispettato, a consuntivo, lo spirito. Mi sono ritrovata cosi’, turista campana in Campania, con la sommelier e amica Michela Guadagno a vagare per il casertano, rivisitando mentalmente tutte le cantine visitabili, senza sceglierne nessuna. Per poi approdare al Belvedere di San Leucio, fantastico borgo destinato alla produzione di tessuti pregiati di seta da Ferdinando IV di Borbone, figlio di Carlo III, e alla Vaccheria, con la sua chiesa di Santa Maria delle Grazie e la sequenza incantevole di piccole case nelle quali vivevano le manovalanze della produzione delle calze. Una cittadella, che avrebbe dovuto essere uno dei pezzi del più ampio progetto della utopica Ferdinandopoli, e nella quale continuano a vivere un’inaspettata quantità di ristoranti e trattorie, per lo più specializzati in eventi e celebrazioni di vario genere.
A pochi passi dal Belvedere, cosi’ chiamato dagli Acquaviva per la splendida vista che si gode da questo poggio, sorge, in un ex orfanatrofio del ‘700, La Locanda delle Trame: 10 camere con i nomi ed i colori dei fiori, una sala ristorante per avventori gourmet che gioca sui colori del rovere chiaro e del canapa grezza, e una più grande destinata ai banchetti. Poi la terrazza, e il solarium al livello delle camere con le travi a vista in legno. In cucina c’è lo chef Giuseppe Daddio, già fondatore della Scuola Dolce e Salato di Maddaloni. Occhi vispi, sorriso smagliante e tanta carica per questa nuova avventura. Il locale ha aperto, infatti, solo lo scorso 25 aprile, dopo un lungo lavoro di ristrutturazione. Ancora pochi dettagli, e la struttura sarà ufficialmente inaugurata quest’estate. Per ora: tre menù sovrabbondanti di preparazioni che conquistano la vista:” terra di lavoro”, “di amo e di rete” e ispirati a “Ricett’iss”, il libro che Daddio ha pubblicato nei mesi scorsi e che raccoglie alcune delle sue ricette. In cinque affiancano Daddio nella cucina sulla quale uno schermo al plasma collocato in sala apre una finestra per sbirciare l’impiattata finale prima del servizio. In sala ci accoglie il sommelier Giuseppe D’Angelo, efficiente, accorto, asciutto nel descrivere i piatti e sorridente al punto giusto. Mi colpisce, tra i piatti serviti, la tagliata di tonno (spennellato con il miele e appena grigliato), con asparagi selvatici, filamenti di peperoncino e patate cristallo. Cioè tanto fini da essere brillanti e assolutamente trasparenti (nella foto). Incantevole e invitante la presentazione del piatto, che su suggerimento di Giuseppe accompagniamo con un Nifo Sarrapocchiello Falanghina Taburno doc 2007. Con il suo buon tenore di alcol e la sua bella struttura, sta bene con questo piatto di pesce di terra, complici le guarnizioni di salsa di peperoni e di basilico. Dessert (caprese con mousse di ricotta di bufala, creme brulè al cardamomo e mille foglie alla nocciola su letto di fragole) e via. Torniamo a tuffarci nella Campania, senza meta, tra una chiacchiera e una fotografia, alla ricerca di un luogo dei ricordi che non ritroveremo. A destra si va per Casertavecchia a sinistra “dove venivo con mio padre”. Arriviamo a Limatola, nella confinante provincia di Benevento, senza accorgercene. Ce lo annuncia lo striscione di una delle sagre estive in programma. Sfiorano il tetto della macchina le chiome degli alberi di ciliegio grondanti frutti. Ai lati della strada le bancarelle ne offrono cestini stracolmi, tra piramidi di mele annurche. Abbiamo girovagato a sufficienza, con lo stesso spirito leggero di un paio di sere fa: birra e pizza qualsiasi a Piazza Municipio, ad un passo dal Palazzo del Comune. In un locale normale con una compagnia speciale.
Si torna in città: giusto in tempo per la pioggia che ha minacciato tutto questo weekend e che finalmente, poco prima dell’aperitivo della domenica sera, trova spazio per sfogarsi. Tanto domani c’è il ponte, e martedì è ancora festa. C’è tempo per recuperare le ore di sole perse.
Foto: la tagliata di tonno di Giuseppe Daddio