Il vecchio danzatore ellenico balla malinconico. Avvinghiato al suo sostegno, contorce il corpo allungando le braccia alla ricerca dei compagni vicini con i quali compone una coreografia immobile. Con tre di loro sta spalla a spalla, come nell’atto di reggere il peso del firmamento scolpito in volte alte e basse disegnate nella stanza aperta compresa tra i loro corpi. Nel rovesciare il capo in un infinito atto di passione, ciocche legnose gli pendono sulla fronte come scuri pendagli nodosi. Non ricorda più quanti anni ha, né da quanto sia sotto quel cielo. Ma sa che ci è nato e che l’unico futuro che può immaginare è di morirci.
È un patriarca della Vitis ellenica e, con i suoi, balla una danza lenta in una starseta irpina.
Plinio il Vecchio nel I secolo d.C. la chiamò la vigna a compluvium. Sorrette da tutori morti o da alberi – pioppi, noci, meli e peri, secondo la specifica tradizione o esigenza locale – le piante di aglianico, barbera, coda di volpe, coda di volpe rossa, montonico, sangiovese, sciascinoso, grecomusc’ (o rovello bianco), così coltivate, sembrano formare, infatti, un ambiente a cielo aperto nel quale ciascuna, fatta di due o quattro rami intrecciati tra loro, è disposta ai quattro lati di un parallelepipedo alto da due a quattro metri, a distanza di circa tre o quattro dalla successiva. Ideate per consentire di ottenere, insieme all’uva, anche il grano, gli ortaggi e quanto era necessario a sfamare le bestie usate in campagna, le starsete, caratterizzate dalla compresenza di più vitigni in base al gusto della famiglia contadina che le piantava senza ordine preciso in più fasi, erano in grado di garantire alte rese e quindi un utile reddito integrativo. Sono, ancor oggi, la testimonianza viva di un modello economico e culturale in gran parte travolto dall’impetuosa avanzata dell’agricoltura specializzata e dall’imporsi della religione del vino da monovitigno prodottasi, qui, poco più di una ventina di anni fa.
Starsete
Le starsete – a Bonito, Mirabella Eclano, Taurasi e, a macchia di leopardo, in varie zone della provincia di Avellino – hanno 50, 80, 100, 150 e anche 250 anni. Perfino osservando con attenzione i tronchi vigorosi che arrivano a misurare oltre i 70 centimetri di circonferenza è difficile stabilirlo con certezza. Nei casi più dubbi è la memoria di un vecchio contadino, di chi queste piante le ha osservate dalla finestra di casa fin da bambino, a fare la differenza. Un «è sempre stato lì», se non è proprio un’asserzione scientifica rende, alla bisogna, bene l’idea. Di certo si sta rivelando utile agli amici del gruppo di lavoro di Vitigni storici d’Irpinia composto da Franco Archidiacono, fiduciario della condotta Irpinia Colline dell’Ufita e Taurasi, Alessandro Barletta, Peppino Beatrice, Flavio Castaldo, Antonio Oliviero e Pasqualino Miano che, da novembre, sono in giro per censire tutti i ceppi prefillosserici coltivati a starseta in questo triangolo di terra attraversato dalla Via Appia e minacciato dal locale Piano di insediamento produttivo. Lanciato sul web lo scorso settembre, il grido di allarme di Castaldo, archeologo, suonava così: «Continua la follia. Costruire un’area industriale in una zona miracolosamente salvata finora dal cemento, per edificare un impianto per la trasformazione e la produzione di energia elettrica dalle biomasse importate dalla Romania».
Non ha ancora finito, l’Irpinia, d’inventariare le brutture del dopo terremoto, e il foro dell’antica Aeclanum, località segnalata perfino nella Tavola Peutingeriana, di essere ricoperto dal cemento – ricordava ancora Castaldo – che già un’altra manciata di lustri di quel lento fantastico lavorio sinergico tra terra, uomo ed ecosistema, che ha disegnato il complesso paesaggio culturale delle starsete, finisce sotto l’ingranaggio di una ruspa.
Un ettaro di vigna centenaria è stato rimpiazzato da un ampio capannone sorto in mezzo al nulla. Un altro ettaro è stato di recente abbandonato e adottato dalla Condotta impegnata a censire le starsete dei tre comuni. Ne ha individuate già circa 14: un patrimonio di svariate decine di ettari e vecchi di qualche decina di migliaia di anni, da mappare e incrociare con le testimonianze archeologiche che qua e là affiorano in campagna. Per gli amici della Condotta è questo uno dei nuovi fronti sui quali si esercita la resistenza contadina che Slow Food Campania ha rilanciato alcune settimane fa con un Manifesto: «No all’avanzare del cemento che determina la perdita irreversibile di suoli agricoli, no all’omologazione dilagante dei prodotti alimentari e, ancora, no alla legislazione che privilegia sempre di più i processi di industrializzazione del cibo». Un esempio su tutti in tema di leggi. La misura 214 del Piano di sviluppo regionale della Campania per il periodo 2007- 2013 contempla l’erogazione di un contributo di un centinaio di euro, a favore degli agricoltori, per ogni ceppo centenario di vite salvato. Un’encomiabile iniziativa, racconta Peppino Beatrice, che la complessità della procedura di accesso al finanziamento rende, però, inefficace, richiedendo al contadino un impegno di tempo e risorse che lo distoglie dall’attività produttiva per denunciare non solo le viti beneficiarie, ma l’intera articolazione della sua proprietà. Che sia invece una luce in fondo al tunnel l’istituzione del Parco intercomunale urbano della Media Valle del Calore, di interesse regionale ai sensi della Legge Regionale n.17 del 2003? Se lo augura Franco Archidiacono che spera sia un argomento per convincere all’azione e a una pianificazione lungimirante le amministrazioni di Mirabella e Bonito, contermini di Luogosano, Lapio, Sant’Angelo all’Esca e Taurasi, comuni che sono interessati dal progetto del Parco.
Intrecci
Quello delle starsete non è un paesaggio continuo ma un segno costante che va ricercato nella campagna irpina e lungo le antiche vie, sin da epoche remote percorse da potenti, eserciti e mercanti. Una su tutte l’Appia, antica e nuova. Seguire il percorso è un viaggio nel mondo dell’aglianico, vitigno che rappresenta il 70% del patrimonio a starsete interessato dal progetto di recupero. Aglianico amaro o del Taburno, nel beneventano, aglianico di Taurasi e aglianico del Vulture. I sorsi dei tre biotipi più significativi e delle denominazioni più prestigiose dell’inossidabile vitigno del Sud, scorrono da tempo immemorabile lungo questo percorso. Ma mentre la via Appia accompagna il vigneto a starseta – rintracciato a Bonito, Mirabella Eclano, ubicate lungo il suo percorso, e Taurasi, poco a sudest –, il tracciato dell’A16 lo taglia di netto. Se tutti i vigneti storici della zona fossero ad aglianico, tuttavia, il lavoro sarebbe forse troppo facile. Il cammino per la sopravvivenza che le starsete hanno davanti è reso più impervio dalla loro composizione varietale. Se non altro perché vitigni come barbera, coda di volpe, coda di volpe rossa, montonico, sangiovese, sciascinoso e grecomusc’ (o rovello bianco), anch’essi tra i “danzatori” delle stanze di pliniana memoria, sono di quelli che nella storia del vino della Campania hanno recitato, loro malgrado, un ruolo minore. Abbandonati in osservanza di sopraggiunte mode o tendenze di gusto, asserviti a vitigni più considerati, o addirittura confusi con essi, sono arrivati fino a noi grazie alla damigiana del contadino, allo spumantino dell’incurabile nostalgico, più che in nome di una precisa scelta produttiva. La probabilità che il cammino di salvezza delle starsete sia coronato da successo è da riconnettersi al gradimento che alcuni di questi vitigni stanno guadagnando e sapranno guadagnarsi in futuro. Qualche segnale positivo proviene da due varietà a bacca bianca valorizzate dalle due cantine partner della nascente comunità del cibo di Terra Madre degli agricoltori delle vigne storiche d’Irpinia, punto di partenza di uno dei primi futuri Presìdi del vino d’Italia, si spera. Il coda di volpe, utilizzato tradizionalmente per il taglio di fiano e greco, due delle punte di diamante del tridente commerciale a denominazione di origine controllata e garantita della Campania, è già riproposto in purezza da una decina di cantine, negli ultimi anni con maggiore insistenza. Tra esse la Tenuta del Cavalier Pepe che al piccolo vitigno di grande personalità ha dedicato cinque ettari della sua bella vigna Carazita. Al grecomusc’ (“moscio” per la tendenza degli acini a raggrinzirsi), la cantina Contrade di Taurasi, con un certosino lavoro di ricerca, studio e sperimentazione avviato nel 2003, ha restituito la dignità.
All’esperienza pilota della comunità del cibo degli agricoltori custodi dell’antico vitigno grecomuscio si rifà la nascente comunità che ha tra i suoi proprio quel Peppino Beatrice che scrive in un interessante libricino divulgativo «di quel vitigno dal nome un poco buffo, che non era una invenzione dei miei amici di bevute per prendermi in giro, mi hanno nominato custode. E io ci tengo». C’è da augurarsi che a tenerci siano in tanti.
Articolo pubblicato sul n°53 della rivista Slow Food.