Quando le cesoie tagliano il primo grappolo, dopo un anno di lavoro, specie in un’annata ostica come l’attuale, un sospiro di sollievo esce quasi naturale.
La vendemmia è un momento unico ovunque essa si consumi. Ma lo è ancor di più sotto il Vesuvio che con la sua mole, il suo cono decapitato, ci ricorda, per fortuna, per certi versi, di quale forza brutale è capace la natura.
La settima ora (circa le 13,00) a Pompei in quella giornata del 79 d.C. suonò con il fragore di un’esplosione accompagnata dal rivoltarsi della terra sotto i piedi.
In poche ore Pompei, una comune cittadina dedita al commercio di prodotti della terra e prelibatezze gastronomiche come il vino e il Garum -e quelle vicine – fu rasa al suolo.
Restituita alla luce a metà del XVIII secolo non sarebbe stata più la stessa. Non più una comune cittadina, ma Pompei: la città meglio conservata dell’antichità romana in tutto il Mondo. 2 milioni e 500000 visitatori ogni hanno passano di qua e chi non lo ha fatto ancora, prima o poi lo farà.
Ieri, alle falde del Vesuvio, si è svolta la più incredibile vendemmia di questo 2010: quella degli Scavi dell’antica Pompei. Ovvero quella di cinque piccoli appezzamenti di, complessivamente, 1 ettaro circa, incastrati tra capolavori di ingegneria come l’Anfiteatro e la Palestra e a una passo da alcune delle più rappresentative ville patrizie dell’epoca, dalle botteghe artigiane e da tutto quell’incredibile mondo pullulante di attività che mai avremmo potuto conoscere se non attraverso Pompei.
Tutto questo è “Villa dei Misteri,” l’etichetta prodotta, in circa 1700 esemplari, da Mastroberardino con vitigni storici come Piedirosso (85%) e Sciascinoso (15%) coltivati sul livello dei terreni del 79 d.C. in base a una collaborazione con il Laboratorio di Ricerche Applicate della Soprintendenza Archeologica di Napoli e Pompei.
Accompagnati dalla sua direttrice, la dottoressa Annamaria Ciarallo, dall’amministratore delegato di Mastroberardino Dario Pennino e dall’agronomo Antonio Dente, un piccolo gruppo di addetti al settore ha potuto assistere alla nascita di una bottiglia che in enoteca sfiora i 100 euro, ma che vale decisamente molto di più in termini di valore simbolico.
La collaborazione tra la Sopraintendenza e la storica azienda di Atripalda risale al 1996 e rientra nell’attività di recupero delle zone a verde degli Scavi: “non solo vigne, ma giardini, frutteti e orti” ha spiegato la Ciarallo. Si è iniziata la sperimentazione, ha raccontato Pennino, inizialmente, su cinque vitigni a bacca bianca (Fiano, Greco, Caprettone, Coda di volpe e Falanghina) e due a bacca nera (Piedirosso, Sciascinoso), tutti identificati come tradizionali perché raffigurati negli affreschi delle residenze pompeiane, o perché descritti nelle opere di Plinio il Vecchio e Columella.
Si è andati poi, avanti solo con quelli a bacca rossa che sono stati impiantati, nel 2000, su un portainnesto americano (indispensabile, avendo verificato la storica esistenza delle peronospora nella zona) ha spiegato l’agronomo Antonio Dente.
Oggi le vigne degli Scavi di Pompei vantano la presenza delle varietà tradizionali prescelte, organizzate in filari orientati nord-sud secondo il sesto di impianto (1,2×1,2) originario, e sorrette dallo stesso tipo di sostegni dell’epoca: pali di castagno. Un vigneto razionale, sorprendentemente moderno, coltivato a guyot, frutto di un’opera di ricerca archeo-botanica che ha utilizzato la tecnica del riempimento con gesso dei vuoti lasciati nel terreno dalle viti, e dai loro supporti, per poterne stabilire l’esatta collocazione.
Presso la vigna del Foro Boario, la più grande di quelle in produzione, collocata di fronte all’imponente Anfiteatro, si è arrivati, infatti, a stabilire che erano circa 1700 le piante presenti e circa 700 i litri di vino prodotti e vinificati sul posto all’interno di dolia ancora visibili. I grandi recipienti in terracotta funzionavano all’epoca come fermentini a temperatura controllata: conficcati nel terreno a 170 cm di profondità, avendo la bocca stretta, consentivano di utilizzare la temperatura più fresca del terreno e limitavano lo scambio di ossigeno con l’esterno. La conduzione dei vigneti, fatta da Mastroberardino, segue i dettami della lotta integrata. Nessuna concimazione, data la ricchezza del terreno, e nessun ricorso al diserbo, se non meccanico. Per contenere l’incontenibile vigoria della vite, specie in varietà difficili come il Piedirosso, si provvede a ripetute cimature e a un paio di sfogliature (la prima delle quali a luglio).
Un paio di anni fa il progetto è stato esteso a un altro mezzo ettaro che è stato impiantato per l’85% ad Aglianico e, per il resto, a Sciascinoso, varietà che nelle vendemmie fin qui svolte ha dato ottimi risultati.
Nel 2011 sarà vendemmiata per la prima volta questa porzione del vigneto di Pompei, allevato ad alberello per preservare i grappoli di Aglianico dagli attacchi delle considerevoli temperature dell’area.
Allora, “Villa dei Misteri” introietterà l’energia del più diffuso dei vitigni a bacca rossa della regione e segnerà un nuovo passo di una affascinante ricerca che in questi giorni, e fino a metà maggio, è descritta con dovizia di particolari in una mostra in corso al Palazzo Pitti di Firenze dal titolo “Vinum Nostrum”.
Articolo pubblicato sul sito di Luciano Pignataro.
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