La spesa è l’incubo dello chef. E del titolare di un locale. Ovviamente non parlo della selezione degli ingredienti che è un argomento a parte. Quanti mesi richiede la messa a punto di un elenco accurato di fornitori? Affidabili e adeguati alle proprie esigenze. Non esiste, invero, un elenco siffatto. Non si finisce mai di scriverlo. E sono più i nomi che escono che quelli che entrano.
Parlo invece della spesa quotidiana. L’incubo mio di queste settimane visto che mi occupa, a tappe, l’intera giornata. Arrivo a giorni alterni ad odiarla, perchè cadenza le settimane e mi indica lo scorrere impietoso del tempo, mentre il lavoro in cucina no. La cucina, e tutte le attività correlate, sono senza tempo.
Eppure, quella della spesa, una di quelle attività che non mi possono delegare. O difficilmente. Una delle volte che lo ho fatto mi son trovata con 60 euro di carne inservibile o con una zucchina di chilogrammo per fare la scapece. La sera – con una lunga giornata sulle spalle – si prepara l’elenco delle cose da acquistare.
Comandamento numero 1: il pane non può mancare sulla tavola di un ristorante. A meno che uno non se lo produca da sè, quella dal panettiere è una tappa obbligata. Poi tutto il resto. Si esce relativamente presto per gli acquisti. O i fornitori consegnano di buon mattino.
Io, invero, inizio il mio giro fin troppo tardi per via di una serie di impegni concomitanti. Stamani mi son goduta (davvero!) una breve passeggiata per acquistare il pane e i cornetti caldi (intrisi di burro come si vuole sulla mia isola). Ho fatto due chiacchiere con il panettiere circa la famosa Tiropita patmiota e me ne son tornata a casa. Lì mi aspettava il pescivendolo, anzi la pescivendola. E che pescivendola! Belga e fine signora. Ieri sera mi ha portato un dentice bello come il sole. E’ bastata una telefonata e ha sfoderato per me e per il locale mio e di mio marito uno dei suoi esemplari più belli. 1,9 kg di fantastico prodotto locale.
Mi son soffermata a riflettere. Confesso: mi dà un certo piacere il rapporto con i fornitori. Ricordo bene di essermi emozionata il giorno in cui una giovane produttrice di formaggio e latte, una tedesca che ha sposato un pastore patmiota, è venuta ad Oklacà con una piccola borsetta frigo zeppa dei suoi prodotti. Campioni sottoposti al nostro assaggio per poter entrare nella mia cucina. L’averla di fronte con i suoi formaggi e lo yogurt fatto apposta per noi, mi fece avvertire una sensazione mista di eccitazione (il brivido del potere, immagino) e responsabilità.
Come ignorare questa verità: la sorte di una serie di produttori, piccolo come questo, affidata alle decisioni di acquisto di noi altri. Dei ristoratori e dei consumatori più avveduti. Se i loro prodotti non trovano una collocazione, se ne vanno in malora intere famiglie. Con Cristine, ad esempio, questo il nome della pastorella, i suoi 200 capi di capra. E non solo loro.
La campagna. E, lentamente, la vita sull’isola. Paesini e angoli bucolici cancellati per aver detto no a un pezzo di formaggio. Esistenze distrutte per il crollare di un castello, il sogno di una vita, costruito pezzetto di formaggio su pezzetto di formaggio. Tutto solo perchè una come me, e molti altri come me, magari, non è riuscita a mettere nel proprio piatto un pò della sua Ksino Misitra, un formaggio che , utilizzato tradizionalmente come Meze accompagnato all’Ouzo, è estremamente ostico: acido e salato. Inservibile per certi versi, eppure cruciale per delle vite.
Confesso che il momento della spesa lo tollero solo per il gusto di far product scouting. Curiosare tra gli scaffali o sotto di essi, dove ci sono sempre le cose più interessanti.
Le storie dei produttori mi appassionano, i loro prodotti mi incuriosiscono. Quanti passaggi voluti e non voluti ci sono dietro un prodotto? Incidenti di percorso. Errori. Divoro i dettagli della loro vita. Non a caso mi è insopportabile il supermercato: un non luogo dove l’unica possibilità che ho è quella di chiacchierare con i cassieri stressati che passano un codice a barre dopo l’altro. Una giornata tra bip, lettori ottici e scontrini. E le zucchine di un qualche contadino, buttate in un banco frigo accanto alla ricotta industriale. Quando si sta come una piccola isola come quella che abbiamo scelto per Oklacà, dove gli approvvigionamenti sono a singhiozzo e taluni prodotti eccessivamente cari in rapporto alla loro qualità, anche una ricotta come quella vale oro. Io sono quotidianamente impegnata nell’accaparramento di questi prodotti. Alternative non ce ne sono. E finisco per benedire la Mozzarella della grande industria, gommosa o molliccia. Secca o senza sapore. Certo: per una come me che mangia, di solito, le migliori al Mondo. Ma non dispero: aspetto con pazienza il soccorso gli amici del Consorzio. E mentre il supermercato prende il sopravvento sulle esistenze degli isolani che hanno tentato, alcuni anni fa, una pacifica resistenza passiva contro la sua nascita, a danno dei piccoli esercizi, anche i contadini prendono alcuni scivoloni. Ieri ne ho visto uno, che avrei giurato scavatore di patate, andarsene via giubilante con una cassetta di pomodori mezzi acerbi. Un bip ha salutato il suo acquisto. E dopo poco se ne è andato su un motorino scassato dopo che il cassiere ha vomitato il suo ennesimo scontrino.